E allora la lotta di classe? Eric Gobetti e le foibe

Uscito in formato un po’ scarno, per i tipi della Laterza, quasi già a sminuirlo fin dalla confezione, il piccolo saggetto di Eric Gobetti, E allora le foibe?, si trova spesso seminascosto in qualche angolo degli scaffali delle grandi catene librarie come Mondadori, quasi che la sua presenza lillipuzziana potesse infastidire gli enormi banchetti allestiti per il “Giorno del ricordo”, il giorno del “rovescismo” per eccellenza, quando le vetrine si riempiono di opere strappa lacrime per il povero italiano infoibato, quasi sempre un ricco fascista conclamato.


Nonostante la sua presenza microscopica, Gobetti si difende benissimo tra i giganti del nulla e della propaganda, tanto più quando la maggior parte di quelle pubblicazioni sono del tenore de Il Giornale che sputa veleno sul libro senza manco averlo letto. Il libro è di agile lettura, breve e sostanzialmente riassuntivo della vicenda.



LA FICTION DELLE FOIBE


Il prologo potrebbe essere anche l’epilogo, visto che nella parabola del “Giorno del ricordo” c’è già tutto il significato recondito di quella operazione politica. Istituita il 30 Marzo 2004 su iniziativa del picchiatore fascista Ignazio La Russa e dei “fascisti moderni e perbene” di Alleanza Nazionale, col consenso bipartisan di pressoché tutto il parlamento, ha avuto il suo vero debutto televisivo l’anno dopo, nel 2005, nel film “Il cuore nel pozzo”. Questo filmetto – ancora troppo fresca l’iniziativa di legge – non poteva scoprirsi più di tanto, per cui non si schiodò dalla visione angelicata dei poveri italiani “brava gente” investiti improvvisamente dal belzebù rosso della Resistenza jugoslava, barbara e cattiva senza motivo.


Naturalmente poiché al “Giorno del ricordo” e ai fascisti che l’hanno promosso, delle vittime italiane innocenti importa meno di nulla, specie se proletarie, abbiamo dovuto aspettare quattordici anni per vedere, nell’ideale “seguito” di quel film, le vere intenzioni dell’operazione. “Rosso Istria”, andato in onda sulla Rai il 10 Febbraio 2019, mette a nudo il vero significato dell’operazione politica: riabilitare i fascisti. Infatti nel film, le vittime non sono più puri e semplici italiani, ma sono fascisti dichiarati e i salvatori sono addirittura i nazisti che riportano la pace e la giustizia laddove i “titini” portano morte e distruzione.



LE FOIBE NELLA STORIA RESISTENZIALE


Gobetti riporta coi piedi per terra la nuvola nera che si aggira attorno al “Giorno del ricordo”, parla della complessità storica della vicenda legata alle foibe, tuttavia a noi sembra che non sia così difficile comprenderla se solo si ragionasse un po’. Persino chi ha una conoscenza storica perlopiù scolastica dovrebbe riuscire a capire a grandi linee quel che è successo in quel frangente, senza scostarsi più di tanto dal vero. Gobetti con la precisione dei dati statistici, non fa che confermare questa nostra impressione.


Come tutte le zone di confine, quello orientale, ha subito i capricci delle varie borghesie in lotta tra loro per l’espansione dei loro mercati. Quando la borghesia italiana vinceva, si spostava un po’ più in là verso i Balcani, quando perdeva si restringeva verso le Alpi. La popolazione di quei luoghi, più che italiana o slava o tedesca “da sempre”, è quindi da sempre “di confine”, c’è chi sente più italiano che slavo e chi più slavo che italiano, e molti, probabilmente la maggior parte, si sentono meticci, un mix di tutte le popolazioni presenti in quei luoghi. Come scrive Gobetti, quelle popolazioni sono state «per molti secoli, multiculturali, multilinguistiche, multinazionali». Lo scrittore triestino Italo Svevo, che sceglie questo pseudonimo proprio per rimarcare il suo essere italiano e tedesco allo stesso tempo, è il simbolo di tale crogiuolo.


Tale miscellanea è presente vistosamente proprio nella Resistenza jugoslava che incorporò nella sua file, oltre a tanti altri, tra i venti e trentamila partigiani italiani: «sono cifre incredibili. Per avere un termine di paragone, i partigiani in Italia sono, nella stessa epoca, numericamente equivalenti». Difficile quindi, con un’incorporazione così massiccia di forze italiane, procedere immediatamente e tanto facilmente a una pulizia etnica. La pulizia etnica ci fu e spaventosa, nel ventennio fascista, che dopo essersi annesso circa un terzo dei territori jugoslavi, cercò di italianizzare a forza una popolazione che tutta italiana non era. La popolazione slava dovette subire segregazione, razzismo, stupri e violenze di ogni tipo ma il peggio doveva ancora avvenire. Quando si costituì la resistenza jugoslava, la repressione fascista si intensificò. Interi villaggi sospettati di sostenere i partigiani vennero distrutti, oltre centomila le persone sfollate e rinchiuse in campi di concentramento in condizioni miserevoli. Qui persero la vita molte donne e bambini. Non è quindi difficile immaginare che al crollo del fascismo, seguì l’inevitabile vendetta del popolo jugoslavo seviziato per anni dal regime fascista. Vendetta tutt’altro che improvvisa e incomprensibile.


Quello che andò in scena sul confine orientale sul finire del conflitto bellico, fu il più classico degli appuntamenti finali di una guerra: “la resa dei conti”. È indubbio che in un clima del genere anche tanti “italiani innocenti” persero la vita, come del resto la persero altrettanti “stranieri innocenti”, anche se il “Giorno del ricordo” se li scorda perché ha una memoria solo tricolore. Il punto è stabilire con chi in generale furono regolati i conti. La Resistenza jugoslava che aveva un progetto di un unico stato slavo in cui tutti i cittadini di tutte le nazionalità avessero pari diritti, colpì in particolar modo i collaborazionisti fascisti e nazisti: «le uccisioni commesse sul confine orientale nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945, non possono essere in alcun modo considerate un tentativo di genocidio, e le vittime non sono individuate in quanto appartenenti ad uno specifico popolo».


Il repulisti di fascisti, nazisti e collaborazionisti, costa dalle 3000 alle 4000 vittime (stima di Gobetti), cifra massima e molto generosa che tiene conto di tutto, anche dei dispersi che probabilmente hanno perso la vita in altro modo, magari in battaglia. Quasi tutte queste vittime furono fascisti conclamati come dimostrano pressoché tutti i paladini della destra innalzati a martiri delle foibe, dai tanti riabilitati e medagliati per essere stati fascisti convinti, a Norma Cossetto, fascistissima figlia di un fascistissimo federale, fino all’unico sopravvissuto al “milione” di infoibati, Graziano Udovisi, che ancora oggi potete sentire pianger su youtube come “povero santo italiano” nella puntata del Mixer di Minoli del 1991. È strano che l’unico ago spuntato fuori dal pagliaio degli italiani infoibati, sia proprio un fascista collaborazionista e “rastrellatore”. Si vede che anche la sorte ha simpatie fasciste, perché tra i “milioni” di italiani innocenti, ha preferito scegliere l’unico colpevole di fascismo…


Anche le poche volte che si tratta di veri e propri innocenti, si tratta quasi sempre dell’opposto di quel che vuol far credere la propaganda fascista. La famosa foto presentata da Vespa a Porta a Porta nel febbraio 2012 e ripresa spesso da iniziative fasciste, per dimostrare l’efferatezza dei partigiani jugoslavi, è in realtà la foto di un’esecuzione di cinque partigiani sloveni da parte dell’esercito italiano fascista di occupazione.


E allora le foibe? Le foibe sono voragini tipiche delle zone carsiche ed erano usate per la sepoltura veloce, di fronte a un terreno particolarmente duro. Furono usate da entrambe le parti: «anche nella seconda guerra mondiale vengono sepolti nelle foibe, ad esempio, sia i civili e i partigiani uccisi da fascisti e nazisti, sia i soldati o i collaborazionisti uccisi dai partigiani». Dal 1943 fino alla fine della guerra, le vicende belliche sono instabili. Anche se la sconfitta dell’asse era ormai cosa più o meno sicura, la liberazione fu lenta e sanguinosa. Interi territori potevano passare dalla sera alla mattina da un campo all’altro. Le foibe servivano, quindi, anche e soprattutto a occultare cadaveri per «evitare rappresaglie da parte tedesca contro i villaggi vicini». Chi denuncia semplicemente le foibe senza domandarsi il rischio che si correva a lasciare in vista i cadaveri, parla così perché ora non rischia niente. Fosse stato là, tra i partigiani, difficilmente avrebbe fatto diverso se non avesse voluto rimetterci la ghirba. Come spesso avviene in questi casi, le condanne non potevano andare tanto per il sottile, ma va detto che le sentenze fasciste furono di grana molto più grossa. Il rapporto infatti tra partigiani uccisi dai fascisti e viceversa e di 5 a 1. Di efferato, in generale, ci fu solo il nazifascismo, non la resistenza. Tanto più che i cinque uccisi possono indubbiamente essere riconosciuti come partigiani innocenti, l’ucciso dai partigiani è invece per lo più colpevole di fascismo.


Nel calderone indiscriminato delle foibe, entra anche la repressione operata dalle forze di liberazione sul finire del 1945. Le parti si invertono. Oltre 10000 persone vengono arrestate tra Pola, Fiume, Gorizia e Trieste, un migliaio fucilate, il resto internato nei campi di concentramento. Qui i più saranno liberati alla fine delle ostilità, altri troveranno la morte per fame o condizioni miserabili. Per quanto sia doloroso, il fatto non è qualcosa di così eccezionale. È un «fenomeno drammaticamente “moderno”, paragonabile a numerosi fenomeni simili che avvengono negli stessi giorni in tutto il continente europeo». È difficile pensare che la liberazione da tanta violenza nazifascista e gratuita, potesse avvenire senza prendere simili misure cautelative. E come sempre succede, più il numero necessario delle persone da bloccare sale, più in mezzo ci finiranno anche tanti innocenti. Non è un buon motivo, però, per non distinguere un’occupazione abominevole e disumana, da una liberazione storicamente giusta.



LO STALINISMO IN SALSA JUGOSLAVA


In mezzo a questo repulisti, il nazionalismo, giocò senz’altro un ruolo crescente e nefasto. Ma sul finire della guerra non colpì tanto gli italiani così cari alla destra, cioè i borghesi e i fascisti, ma proprio i partigiani. È il caso della brigata Osoppo, formazione partigiana di orientamento cattolico e socialista, che a Porzûs perdette 17 componenti trucidati da partigiani comunisti. È lì che vi perse la vita, tra gli altri, il fratello di Pier Paolo Pasolini. Il CLNAI, l’organo di coordinamento della Resistenza per il Nord Italia, aveva ordinato di sottostare al movimento partigiano jugoslavo.


Gobetti, in quanto semplice storico, non lo dice, forse perché non ci ha riflettuto a fondo, ma qui giocò un ruolo nefasto lo stalinismo in un mix di salsa titina e togliattiana. Il problema dei confini all’interno dei vari gruppi della resistenza, infatti, venne affrontato alla stessa maniera dei borghesi. I partigiani jugoslavi volevano Trieste jugoslava e quelli italiani, ma non stalinisti, italiana. In tutta la vicenda, non gioca alcun ruolo l’internazionalismo proletario. Siamo lontani anni luce da Lenin. Qui la spartizione è fatta dall’alto, dietro le quinte, è decisa a tavolino tra tutti gli alti comandi stalinisti, nonostante si basi su rapporti di forza favorevoli. Per Lenin era questione proletaria e di autodeterminazione dal basso. Non solo: si pensi alla pace di Brest-Litovsk e si provi a fare un parallelo. Per tutti gli storici borghesi Lenin ha regalato un terzo di Russia alla Germania, ma la verità di classe è che per preservare un pezzo di Russia ai proletari che fino ad allora non avevano avuto niente né in Russia né in Germania né altrove, Lenin, con rapporti di forza del tutto sfavorevoli, cedette una parte di Russia borghese (la rivoluzione proletaria era ancora lungi dall’aver vinto definitivamente) alla Germania borghese. La speranza era che, preservando quell’avamposto proletario in Russia, si potesse incendiare con la rivoluzione tutta l’Europa. Nulla di tutto questo avvenne sul confine orientale, le varie anime della resistenza si scontrarono in base a uno spirito astratto di gretto nazionalismo. Ma la colpa non sta nella Brigata Osoppo, che comunista non era, qui la colpa di un internazionalismo di facciata ce l’hanno gli stalinisti. Con un approccio veramente classista e internazionalista, molte di queste morti si sarebbero potute evitare.



ESODO


Orfana di un genuino spirito internazionalista, la resistenza jugoslava opera comunque una vera e propria rivoluzione sociale. Senza soviet, ricalcata sul modello sovietico stalinista, la Jugoslavia si appresta a varare un nuovo modello sociale, un nuovo modo di produzione: «collettivizzazione forzata, nazionalizzazione delle proprietà, rapida industrializzazione a fronte di una scarsissima attenzione ai consumi». È il corredo classico del “socialismo” stalinizzato che espropria i ricchi borghesi e mette in crisi anche i piccoli coltivatori e i piccoli commercianti. È soprattutto da qui che parte il cosiddetto “esodo”. Non è un fenomeno legato esclusivamente alla fine della guerra, ma «dura in forma intensiva quasi quindici anni». Coinvolge prima di tutto collaborazionisti fascisti che scappano da una possibile cattura, e si intensifica in base ai vari accordi e trattati di pace che spostano ora qua, ora più in là, i confini. I trasferimenti degli italiani «non avvengono nell’arco di ore o di giorni, come accade per le espulsioni forzate, ma di mesi e anni». Gli unici veramente espulsi sono i tedeschi ai quali in tutta Europa spetta l’esodo più terrificante e disumano. Ma chi può condannarlo senza comprendere la motivazione storicamente giusta?


Agli italiani comunque è consentito scegliere se restare o andarsene. Restare, però, significa restare in uno stato, in teoria, in fase di transizione verso il socialismo, per molti significa perdere dei privilegi di classe. Di qui l’impressione che si debba andare via ora o si resterà lì per sempre. La politica ufficiale del governo jugoslavo, ovvero la “fratellanza italo-slava”, subisce le incrostazioni nazionalistiche che lo stalinismo titino, come tutti gli stalinismi, porta avanti man mano che mette radici profonde nella società. La maggior parte degli italiani viene pertanto vista dai burocrati del regime come una popolazione per lo più di ex fascisti. L’oppressione del nazionalismo in salsa titina gioca un ruolo nefasto. Molti italiani finiscono per sentirsi stranieri in casa propria.


Il risultato di tutte queste contraddizioni è un trasferimento in massa. Nel volgere di quindici anni, i profughi sono 300000, di cui 250000 di nazionalità italiana. Dall’Istria se ne va almeno la metà della popolazione e in tutta la zona si registra un 83% di italiani in meno. Abbiamo anche un “controesodo”: sono i circa tremila comunisti italiani che se ne vanno in Jugoslavia a “costruire il socialismo”. La vicenda è emblematica perché con la rottura tra Stalin e Tito del 1948, questi compagni, rimasti fedeli a Stalin, si vedranno espulsi o incarcerati o internati, come filostalinisti, nel gulag di Goli Otok, un’isola della Dalmazia. Questo rimarrà a perenne onta dei due socialismi in due soli paesi, cioè di due deficienze per uno stalinismo solo, perché è doloroso pensare all’abnegazione di tanti compagni che si sono trasferiti in cerca del socialismo ed hanno sempre trovato, ad est e ovest, quella caricatura penosa che si chiama stalinismo.


Gobetti conclude dicendo che la vicenda dei profughi istriano-dalmati è una tragedia legata al mutamento dei confini e degli assetti internazionali. È il risultato estremo di un «circolo vizioso innescato dall’imperialismo italiano e poi dal fascismo. Gli esuli sono le vittime ultime della politica aggressiva del regime, dei crimini di guerra… e della sconfitta militare».


Ci sembra un giudizio sostanzialmente equilibrato che deve però essere bilanciato dal peso non indifferente dello stalinismo che Gobetti sottovaluta. Una rivoluzione su basi sane, non avrebbe potuto impedire l’esodo delle classi spodestate, né probabilmente quello politico di chi era avverso al comunismo ma non necessariamente fascista. Inoltre una rivoluzione socialista non parte avvantaggiata rispetto al capitalismo, parte arretrata, quindi o colma in fretta il divario economico estendendosi su scala internazionale o sarà sempre meno attrattiva rispetto al capitalismo. Perciò qualcuno si sarebbe sempre sentito attratto dal capitalismo.


Fatte queste debite premesse, però, una rivoluzione sana, basata sui soviet e sull’internazionalismo proletario, avrebbe sicuramente ridotto al minimo le storture più evidenti prodotte dall’intreccio della sconfitta bellica con la vittoria dello stalinismo titino. Il dramma di molti avrebbe potuto essere ridotto. Applicando il principio di autodeterminazione usato da Lenin le zone liberate avrebbero potuto procedere a una migliore integrazione senza esodi così enormi. E forse espatriare dalla Jugoslavia all’Italia, avrebbe significato restare all’interno di un unico confine, dalle Alpi ai Balcani, bonificato da quella rivoluzione internazionale che lo stalinismo stroncò.



LA REPUBBLICA DELLE FOIBE


Nell’ultimo capitolo Gobetti passa in rassegna la presunta “congiura del silenzio” sulle foibe. Delle foibe, come di tante altre storie, si è sempre scritto, ma in un paese di non lettori come l’Italia, la pretesa è che ne parlino i politici che sono per lo più ignoranti in materia di storia o quando non lo sono, sono interessati a farlo solo per i loro giochi politici.


Finita la guerra, con il mondo diviso in blocchi contrapposti e il governo di unità nazionale, DC e PCI non se la sentono di pestarsi i piedi. Rinvangare le foibe da una parte, significa ricordare dall’altra l’invasione fascista. L’Italia è pur sempre un paese sconfitto, il blocco sovietico è invece uno dei grandi vincitori, al capitalismo italiano non conviene rinvangare il passato con troppe pretese. Il baratto delle colpe, soddisfa tutte e due le false coscienze. Con la rottura Stalin-Tito, il PCI è ben felice di poter attaccare strumentalmente Tito sulle foibe, ma non lo sono la DC e il capitalismo occidentale che vedono in Tito una possibile spina nel fianco dell’Unione sovietica. La situazione resterà più o meno bloccata così fino allo smembramento della Jugoslavia.


È con lo smembramento della Jugoslavia e con il crollo internazionale dello stalinismo che la questione delle foibe viene usata dall’imperialismo italiano per ritornare all’attacco delle zone perdute che nel frattempo sono inserite in stati estremamente più piccoli, e quindi più facilmente conquistabili, della grande Jugoslavia. Nasce il “Giorno del ricordo” a senso unico. Le vittime sono solo italiane e gli slavi sono barbari e comunisti. L’uso patriottico della Storia a fini imperialistici, genera in Slovenia un’altra giornata a senso unico: il “Giorno del ritorno del litorale sloveno alla Madrepatria”. Qui le vittime sono solo sloveni. La demenza è internazionale.


Accanto a queste manifestazioni pubbliche di becero nazionalismo, meno pubblicizzati stanno invece i lavori della commissione italo-slovena di storici di entrambe le nazioni. Gobetti contesta giustamente l’idea di fondo di una “memoria condivisa”, la Storia infatti non si può fare distribuendo equamente torti e ragioni quasi che lo scopo fosse raggiungere un accordo tra le parti, tuttavia proprio laddove la storia coinvolge zone di confine al crocevia di diverse nazionalità, provare a scriverla a più mani di diversi paesi, può essere un buon modo, se fatto con intelligenza e amore per la verità, per non scadere nel patriottismo più deleterio.


Ignorati in Italia, gli studi della commissione, sono stati invece accolti con grande interesse in Slovenia, il che significa solo che l’Italia è un paese imperialistico che non può rinunciare alle sue mire espansionistiche e la Slovenia no. A parti invertite, la Slovenia borghese farebbe lo stesso.



LE CONCLUSIONI DI GOBETTI E LE NOSTRE


Il “giorno del ricordo” non è nato solo per onorare i "martiri" fascisti delle foibe. Il vero scopo è contrapporlo al 25 aprile. La festa partigiana deve aver un corrispettivo nella festa dei fascisti. Al momento la destra non c’è ancora riuscita, ma per Gobetti se non ci stiamo attenti presto il “giorno del ricordo” sarà trasformato completamente nel “giorno dell’orgoglio fascista”. Per evitarlo, secondo lo storico, occorre cambiare la rotta, inquadrare la storia nel suo contesto, separare le vittime dai carnefici. Solo così il “giorno del ricordo” diventerebbe una data importante per tutto il confine orientale, per ricordare tutte le vittime dei fascismi, dei nazionalismi e dei totalitarismi senza discriminazione alcuna per le nazionalità.


Da storico non materialista, Gobetti non poteva che concludere scivolando nell’idealismo. Per lui, tale inversione di rotta, consentirebbe all’Italia repubblicana e democratica di liberarsi una volta per tutte «dal peso della colpa del passato regime». Addirittura il riconoscimento degli orrori fascisti darebbe all’Italia «l’opportunità di stabilire relazioni più serene» con le ex colonie e i paesi occupati, oltreché «una vera riconciliazione nazionale sulla base del ripudio del fascismo».


Mancando il marxismo, il problema delle foibe può essere risolto solo da uno sforzo della “ragione” e della buona volontà. Ma le foibe, come tutto il resto, sono un problema di lotta di classe, non tanto di pensiero. Nessuna Italia democratica, repubblicana e borghese potrà mai liberarsi del tutto dalle colpe fasciste che sono le colpe del capitalismo italiano che anche la repubblica borghese rappresenta. Fascismo e democrazia repubblicana, non vanno contrapposte e separate come due compartimenti stagni. Sono lo stesso stato italiano capitalistico in due fasi diverse della sua storia. Il passato imperialista sotto il fascismo, continua oggi in modo diverso e meno esplicito nell’Italia repubblicana. Se il fascismo invadeva la Jugoslavia nel 1941 per occuparla senza tanti complimenti, la repubblica la bombardava per smembrarla negli anni ’90 in nome della pace. L’imperialismo italiano non è interessato a relazioni più serene con gli sloveni, gli unici interessi che ha sono quelli economici e di dominio con la forza delle armi. Se fosse interessato ad aver relazioni più serene, le avremmo già avute. Proprio per questo relazioni più serene, potranno essere solo un sintomo di rapporti di forza diversi e più equilibrati, mai il frutto di chissà presa di coscienza e di consapevolezza della borghesia italiana, che al contrario è ben cosciente dei suoi interessi.


Per lo storico non materialista, la Repubblica democratica rappresenta le colonne d’Ercole della sua indagine storica. Davanti alla repubblica borghese e alla sua democrazia, la Storia dello storico diventa immanente, sub specie aeternitatis, perde la sua caratteristica peculiare: il suo carattere transeunte. Non è più qualcosa figlia di determinati rapporti di forza tra le classi, è il governo ideale disceso in terra a miracol mostrare, manco fosse la Repubblica di Platone. Per cui una repubblica democratica borghese, che già non è riuscita a riconciliare nulla e ad avere veri rapporti più sereni con gli altri stati, quando i rapporti di forza erano più favorevoli rispetto ad un tale progetto, non si capisce come possa farlo oggi in piena disgregazione. Quel poco di buono che la repubblica borghese aveva da dare, è già stato dato da tempo, ora il suo compito è sparire per sempre nel museo delle antichità della Storia, non c’è spazio per nessuna sua rivitalizzazione vera e propria.


Infatti, la riconciliazione nazionale non è che una pia illusione interclassista. L’Italia è divisa in classi del tutto inconciliabili e la riconciliazione nazionale sarebbe soltanto la riconciliazione della borghesia col proletariato, ed è per questo che 25 aprile e “giorno del ricordo” saranno sempre date divisive. Perché dietro quelle commemorazioni, c’è sempre, ineliminabile, lo scontro tra borghesia e proletariato.


Gobetti, pur in buona fede, non riflette nemmeno su che cosa significhi davvero, anche nel suo caso, la “riconciliazione”. Ammesso per un momento potesse davvero avvenire nel modo astorico da lui sognato, sarebbe naturalmente col proletariato a fare sempre da serva e la borghesia a fare sempre da padrona. Perché provate a riconciliare le classi con la borghesia sotto il proletariato e vedrete che anche gli storici più di sinistra andranno in crisi con le loro riconciliazioni a tavolino e ce li troveremo contro, in difesa della loro immacolata concezione della repubblica borghese e democratica.


La borghesia può ripudiare il fascismo solo a parole, come avviene retoricamente ogni anno, sui suoi giornali, il 25 aprile. Nei fatti la borghesia sarà sempre fascista ogni volta che la classe operaia sarà sul piede di guerra come nel “biennio rosso”. I rigurgiti fascisti, i miasmi sempre più frequenti che si sentono a questo o quel livello, gli ammiccamenti alle foibe e ai revisionisti ipocriti alla Pansa, sono appunto il sintomo ineliminabile del germe fascista che sta dentro la borghesia pronto a venire fuori alla bisogna. Ed è proprio perché la guerra di classe latita che il revisionismo ha preso piede e rischia di completare il suo giro.


Il crollo dell’Urss, la sequela interminabile di sconfitte, i colpi di maglio di tutte le controriforme della borghesia e il lungo sonno della classe operaia, hanno permesso ai fascisti di rialzare la testa e all’imperialismo italiano di avanzare di nuovo le sue pretese. Solo una vittoria eclatante da qualche parte della classe operaia, in Italia, in Europa o nel mondo, può invertire il discorso sulle foibe. Senza una tale vittoria, il discorso virerà sempre più a destra, fino a che il revisionismo avrà completato il suo giro nel “rovescismo”. Libri come quello di Gobetti aiutano a prepararla. Lo leggiamo con viva gioia per questo.


Lorenzo Mortara

 

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